A vent’anni dagli attentati terroristici alle Torri Gemelle, spesso ci chiediamo che cosa insegna la storia all’uomo e quali sono i momenti di riflessione affinché non si ricada sempre negli stessi errori di distruzioni e barbari tentativi di sopraffazione. Tuttavia, nulla mostra il minimo ricredersi e nemmeno il pallido pentirsi di gesti che nulla hanno a che fare con l’umano sentire che riconduce al bene. Oggi ricordiamo quel maledetto 11 settembre 2001, e tutti (o quasi), ricordiamo esattamente dov’eravamo e cosa stavamo facendo alle 8,46 del mattino, i sogni che cercavamo di realizzare, le fatiche che eravamo intenti a sopportare, proprio quando un primo volo dell’American Airlines, dirottato da terroristi islamici, si schiantò contro la facciata settentrionale della Torre Nord del Word Trade Center, dando il via ad altri attentati che nel giro di meno di due ore causarono 2977 morti (oltre ai 19 dirottatori) e 6.000 feriti. In quegli attimi abbiamo vissuto tutta l’ira dell’umanità, i sentimenti più disprezzanti dell’uomo contro l’uomo, in un alibi mescolante di inaccettabili facciate politiche, religiose e sociali. Fu l’aberrante momento che cambiò il mondo, anzi, probabilmente l’ha reso più simile a quello che in realtà è, e cioè un qualcosa in cui l’odio resta sempre alla base dei popoli per interessi e desiderio di raggiungere sempre la supremazia con azioni di pancia, senza mai l’ausilio di quella coscienza che si lega al cervello. “L’amore, oggi nel 2002, è un apparecchio momentaneo infilato sotto il petto, forse perché da quella data di settembre è aumentato il senso corrisposto del sospetto” – Tratto da “Che vita” una canzone scritta da Samuele Bersani. Versi che denotano tutto il sospetto, l’amarezza e la sofferenza umana capace di lacerare ogni sentimento riguardante l’amore, il rispetto per la diversità e il valore della vita stessa. Oggi, a distanza di vent’anni, quelle ferite mai rimarginate si ripercuotono in noi con il vuoto profondo di decadenza di un mondo sempre alle prese con la sua storia fatta di lotte, di guerre, di soprusi e di mai pensabili accenni a una normalizzazione umana tendente a pensieri proiettati verso il progressivo ammodernamento culturale e sociale. Niente di tutto questo, perché le ferite continuano a moltiplicarsi e aprono voragini proprio in quella Kabul, terra afghana, in cui la riconquista del potere territoriale talebano porta a un regredire dei principi culturali verso le donne, rese oggetto dell’uomo e legalizzate soltanto a procreare senza null’altro diritto. Niente scuola, niente studio, niente sport, insomma, in poche parole niente vita. E poi? Poi, come se non bastasse, l’uomo continua a combattere i suoi simili anche attraverso l’avvento pandemico del Covid. Tutti gli uni contro gli altri, in una lotta continua senza rispetto tra chi crede e segue i consigli della scienza e chi sostiene l’avvento di maligni obiettivi pronti all’autodistruzione. E’ un continuo fare ricorso alla storia. Una storia scritta per riflettere e capire che ogni cosa del mondo, fatta nel bene e nel male, parte sempre dalla genesi dell’uomo, dal suo essere egoistico e dall’inguaribile consapevolezza di lasciarsi andare al pensiero che noi, solo noi, pensiamo il giusto e gli altri no. E allora, ogni commemorazione, ogni fatto narrato, ogni atto compiuto nella guerra all’umanità, non è altro che una pagina da leggere nei libri di storia che ci raccontano gli accadimenti generazionali, senza sapere discernere il bene dal male in maniera fattiva e non attraverso fatue frasi e ipocrite convenienze di parte. E’ l’uomo, è la vita che continuerà sempre meno a sorprenderci e a rendere la speranza come qualcosa cui aggrapparci per dare il senso in un mondo che prima o poi cambierà?
Salvino Cavallaro